La diritta via (o ciò che nessun altro ha mai fatto prima)

Per dieci anni un uomo ha cercato di dare un senso alla sua vita: una vita che sembrava già segnata dal principio. Era stato tutto previsto, ogni cosa calcolata in un preciso schema di significato. Fosse per gli influssi delle congiunzioni astrologiche cui la tradizione dava tanto peso o per una sorta di predestinazione voluta da ben altro Cielo, la vita di Dante Alighieri, o meglio, la sua vita come sarebbe stata nel futuro, gli era apparsa chiara e netta fin dai primi anni, da quando ancora fanciullo aveva incontrato per la prima volta, bambina, la donna per cui proprio questa vita sarebbe stata degna di essere vissuta. Beatrice, la sua Beatrice. Altro

Le parole secondo d’Annunzio e Montale

Nel momento in cui le parole perdono ogni pretesa comunicativa, problematico ne risulta il ruolo del poeta. Non ci sarà più spazio allora per figure mitiche come quella di Omero o investiture poetiche nello stile di Esiodo e Teocrito. Al poeta restano solo due scelte possibili: tentare, forse anacronisticamente, di recuperare la funzione di poeta-vate, elevandosi al di sopra del mondo, o rinunciare all’aureola una volta per tutte e diventare uomo comune in balia della storia. Atteggiamenti ben definiti dagli scritti di due poeti italiani del Novecento, Gabriele d’Annunzio ed Eugenio Montale. Altro

Calvino e l’illusione del comunicare

“Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del Levante, Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi e disponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi. Di ritorno dalle missioni cui Kublai lo destinava, l’ingegnoso straniero improvvisava pantomime che il sovrano doveva interpretare: una città era designata dal salto d’un pesce che sfuggiva al becco del cormorano per cadere in una rete, un’altra città da un uomo nudo che attraversava il fuoco senza bruciarsi, una terza da un teschio che stringeva tra i denti verdi di muffa una perla candida e rotonda. Il Gran Kan decifrava i segni, però il nesso tra questi e i luoghi visitati rimaneva incerto: non sapeva mai se Marco volesse rappresentare un’avventura occorsagli in viaggio, una impresa del fondatore della città, la profezia d’un astrologo, un rebus o una sciarada per indicare un nome. Ma, palese o oscuro che fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il potere degli emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né confondere. Nella mente del Kan l’impero si rifletteva in un deserto di dati labili e intercambiabili come grani di sabbia da cui emergevano per ogni città e provincia le figure evocate dai logogrifi del veneziano.

Col succedersi delle stagioni e delle ambascerie, Marco s’impratichì della lingua tartara e di molti idiomi di nazioni e dialetti di tribù. I suoi racconti erano adesso i più precisi e minuziosi che il Gran Kan potesse desiderare e non v’era quesito o curiosità cui non rispondessero. Eppure ogni notizia su di un luogo richiamava alla mente dell’imperatore quel primo gesto o oggetto con cui il luogo era stato designato da Marco. Il nuovo dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso. Forse l’impero, pensò Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente.

– Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi, – chiese a Marco, – riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?

E il veneziano: – Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi.”

da Le città invisibili di Italo Calvino

Altro

La parola come possibilità del pensiero #2

Le parole non possono quindi essere considerate mero flatus vocis. Il potere evocativo del nome è innegabile: l’atto del nominare interviene attivamente nella nostra percezione della realtà in quanto definisce i confini delle cose. Nella tradizione ebraico-cristiana, infatti, è proprio attraverso la parola che si estrinseca l’attività creatrice di Dio. “Dio disse: sia la luce. E la luce fu” recitano i primi versetti della Genesi. Solo l’investitura divina, che conferisce ad Adamo il potere di dare nome a tutte le creature, permette all’uomo di elevarsi al rango di un dio e nominare, applicando al mondo i propri schemi razionali. Altro

La parola come possibilità del pensiero #1

Per la cultura greca arcaica non esisteva una netta distinzione tra realtà ontologica, verità logica e nominabilità di una cosa: lo stesso termine lògos indicava originariamente sia “il discorso che esprime un pensiero” che “la verità espressa in un discorso”. Forma e contenuto erano perciò ritenute dimensioni inscindibili: il segno linguistico non costituiva un aspetto accessorio della realtà nominata, ma metteva in comunicazione diretta con il significato essenziale della cosa, fino a divenirne criterio stesso di verità. Di conseguenza ciò che non è esprimibile con un nome non è pensabile né reale. Altro

Ulisse: scelerum inventor (re)inventus est

Nella sua discesa infernale Dante viene guidato da Virgilio, allegoria della ragione, o meglio figura che adempie il proprio ruolo storico in una dimensione oltremondana. La ragione quindi è ciò che permette al poeta il lungo e tortuoso viaggio verso la conoscenza, per mezzo di una profonda indagine dell’animo umano (“l’ardore ch’ebbi a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore”). Da questa semplice considerazione è già possibile desumere la forza del legame che unisce la figura di Dante a quella di Ulisse, ma anche comprendere l’eccezionalità stessa di tale presenza all’interno del canto, quasi un unicum nella Commedia. Infatti, nella progressiva discesa attraverso i gironi dell’Inferno, Dante incontra numerose “persone” storiche ma raramente si imbatte in “personaggi”: questo è il caso di Ulisse, sebbene l’interpretazione che il poeta conferisce all’eroe greco sia diversa da quella di Omero. Altro

L’uovo e la gallina: a cosa serve la letteratura?

Il pensiero, come noi lo conosciamo, è profondamente parola. Tanto che per gli antichi Greci i due significati si confondevano nel termine lògos. Il discrimine tra un Greco e un non-Greco non si riteneva fosse da cercare tanto nella cultura, ma nella lingua: il termine “barbaro” deriva infatti da barbarìzein, voce onomatopeica che riproduce il balbettare di chi non conosce bene una lingua. Tra lingua e cultura, tra parola e pensiero si instaura così una correlazione profonda. Interrogarci sulla priorità dell’uno rispetto all’altro risulterebbe sterile quanto il quesito dell’uovo e della gallina. Certamente senza pensiero non può esserci parola, ma cancellando una parola, il pensiero che questa sottende continuerebbe a esistere? Altro

La letteratura dell’essere oltre

Nel modo di concepire il rapporto dell’uomo con la natura si nasconde sempre la cifra dei tempi. La natura è per definizione alterità, non-io, negazione. Da quando l’uomo ha preso coscienza di se stesso è stato divorato da un continuo bisogno di costruzione artificiale, di creazione di una para-natura che lo rispecchiasse. In fondo l’uomo ha smesso di essere scimmia nell’attimo in cui si è pensato fuori dalla catena alimentare, “oltre” le eterne leggi della natura. Da quel momento ogni rapporto possibile con essa è oscillato tra due estremi, panico e panismo: da una parte soggezione timorosa, horror vacui, la paura di quelle ostili e antiche leggi da cui sente di non potersi sottrarre ma a cui comunque cerca di opporre la logica umana e le sue creazioni, dall’altra desiderio di compenetrazione assoluta, che quasi diviene cupido moriendi, proprio perché di quell’ordine naturale l’uomo stesso è parte. Altro

Negli occhi dei golosi

Dante sembra considerare la gola il meno umano dei peccati, quello che più abbrutisce l’uomo e lo rende simile alle bestie. Pietà, dolore, rispetto o indifferenza sono frequenti reazioni nell’animo del poeta alla vista dei dannati e dei loro tormenti, ma egli sembra riservare il disprezzo per i golosi. Nel sesto canto dell’Inferno ci descrive delle anime che hanno perso ogni connotazione umana fino a diventare informe tappeto semovente, immersi come sono in una putrida combinazione di fango e pioggia. Dante e Virgilio camminano sulle loro forme inconsistenti ed essi a malapena si accorgono di essere calpestati, presi dal proprio frenetico e incessante rivoltarsi da un fianco all’altro: solo Ciacco sembra per un attimo reimpadronirsi della propria condizione di uomo, attraverso l’emblematico gesto coraggioso, quasi eroico, per cui si eleva dallo squallido orizzonte delle anime assieme a lui destinate a un eterno e immutabile castigo. Altro

Dante e Farinata degli Uberti secondo Francesco De Sanctis

Il critico ottocentesco Francesco De Sanctis, nella propria rilettura romantica della letteratura italiana, ha proposto un’interpretazione d’impatto e di grande immediatezza visiva della figura storica protagonista del X canto dell’Inferno, Farinata degli Uberti. Indugiando sui versi danteschi e la loro assoluta potenza descrittiva, De Sanctis ricostruisce la sua immagine eroica: in un’epicità statuaria e ideale Farinata assume i connotati dell’individuo che con forza e “a viso aperto” difende la propria libertà di azione nella storia. L’impertubabilità dell’eroe, che ricorda quella dei viri latini come Metello, viene disturbata solo da poche, fugaci, ma decise e significative, espressioni: il veloce incresparsi della fronte, fiera reazione di un aristocratico che riconosce in Dante l’erede di una famiglia gentilizia rivale; il determinato ma quasi meccanico scuotersi della testa, di fronte al vituperium che Dante gli scaglia contro, il rinfaccio della sanguinosa battaglia di Montaperti. Altro

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